ESG e Venture Capital: da normative e direttive una spinta alla competitività

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In un ecosistema storicamente sottocapitalizzato come quello del venture capital italiano è arrivato di recente un importante stimolo alla crescita della competitività e sostenibilità degli operatori specializzati in investimenti di capitali di rischio. Lo spunto per questa riflessione arriva dalla Direttiva sulle “Aspettative di vigilanza sui rischi climatici e ambientali” pubblicata da Banca d’Italia e ispirata ad analoghi documenti pubblicati dalla Task Force on Climate-Related Financial Disclosures, diretta emanazione del Financial Stability Board.

 

A uno sguardo più attento, infatti, appare evidente come i Venture Capital possano oggi cogliere l’occasione di adeguarsi contemporaneamente sia alla Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) sia alle aspettative della Direttiva della nostra Banca centrale. Se l’adeguamento alla Direttiva resta su base volontaria per molti operatori, nondimeno sono numerosi i vantaggi che questi possono ottenere dal punto di vista reputazionale e della misurazione del rischio dei loro investimenti in startup, soprattutto nel mutato contesto ambientale e climatico globale.

 

La Direttiva di Banca d’Italia pone infatti un grande accento sulla struttura di governance necessaria per mettere in atto un sistema di risk management relativo al climate change. Bankitalia individua tre possibili modelli di gestione dei rischi climatici e ambientali: “accentrato”, “decentrato” e “ibrido”, con quest’ultimo particolarmente indicato per i venture capital del nostro Paese. Se dimensione dei fondi e dei team non consentono ad oggi di adottare facilmente né il modello accentrato né quello decentrato – che prevedono know-how e volumi interni rilevanti – il modello ibrido consente di delegare a operatori esterni specializzati la strutturazione e gestione di un framework di mitigazione del rischio ambientale in termini di raccolta, misurazione, processamento e reportistica dei dati provenienti dalle startup in portafoglio.

 

L’adozione di un modello di governance ibrido, in questo contesto, potrebbe essere un incentivo per fornire alle startup in portafoglio la possibilità di avere accesso, per conseguenza diretta, a competenze e strumenti specializzati in grado di incrementare le capacità di predizione e misurazione del rischio climatico e ambientale, con benefici impliciti in termini di sostenibilità del business, reputazione verso gli stakeholder e attrattività nei confronti di futuri investitori in vista dell’exit. Detta in altri termini: la scelta di un venture capital di adeguarsi volontariamente, e in anticipo rispetto ai concorrenti, ai requisiti previsti dalle direttive della Banca Centrale, consentirebbe alle startup in portafogli di accedere a opportunità di misurazione sistemica del rischio altrimenti impensabili per le loro limitate risorse.

 

Per cogliere appieno questa opportunità, nata dalla convergenza di Regolamenti europei e Direttive nazionali, è consigliabile approfondire alcuni aspetti di ordine finanziario e organizzativo. I venture capital potrebbero infatti esplorare la possibilità di far rientrare i costi della misurazione all’interno dei loro vincoli di capitale e, al tempo stesso, gli operatori interessati ad adeguarsi anche alla Direttiva della Banca d’Italia dovrebbero dotarsi di un piano d’azione strutturato per fornire questa particolare tipologia di supporto alle realtà in cui hanno investito (in termini di strumenti e operatori specializzati nella misurazione del rischio e in termini di revisione della governance interna, con una maggiore responsabilizzazione del proprio CdA).

 

In uno scenario in cui l’integrazione strutturata dei rischi climatici e ambientali è sempre più presente nei piani strategici e operativi delle aziende che intendono misurare con anticipo l’impatto di alluvioni, siccità, ondate di calore sulla propria supply chain e nei mercati in cui operano (il cosiddetto “rischio fisico”), e in cui contemporaneamente la pressione normativa tende a essere via via più stringente (il cosiddetto “rischio di transizione”), l’adeguamento preventivo agli standard più elevati di misurazione costituisce oggi un non-equiparabile vantaggio competitivo per i gestori di capitali di rischio: sia per quanto riguarda la possibilità di ottenere maggiori garanzie di ritorno sull’investimento per sé e i propri investitori, sia per quanto riguarda l’opportunità di favorire la sostenibilità e redditività del business delle startup in portafoglio.